È da almeno una settimana che rimastico questo post. E non mi decidevo mai a digerirlo. Perché non mi va di gettare ombre sul lavoro di persone di qualità e che stimo profondamente. Tanto per chiarire subito di chi sto parlando, è il caso di Roberto Cingolani, uno dei più brillanti fisici italiani, nanotecnologo e direttore scientifico dell’IIT.
Però la storia dell’Istituto italiano di tecnologia merita qualche riflessione. Tanto più oggi che il ministro competente, la signora Mariastella Gelmini, sbandiera ai quattro venti tutto ciò che sta facendo per ristabilire la meritocrazia nelle Università, la trasparenza nei concorsi, la valutazione nell’erogazione dei finanziamenti. Allo stesso tempo l’ineffabile ministro dell’economia – stretto nella morsa della crisi economica per cui non trova di meglio che togliere gli incentivi alle misure di efficienza energetica e ridurre il credito d’imposta per la ricerca industriale – continua imperterrito a finanziare senza alcun controllo una fondazione di diritto privato per la ricerca da lui stesso istituita cinque anni fa.
Correva l’anno 2003, quando la Legge 326, del 24 novembre, istituiva all’articolo 4 l’Istituto italiano di tecnologia. Il MIT italiano, andava dicendo orgoglioso il ministro dell’economia di allora, che è poi lo stesso di adesso. Con un finanziamento di 50 milioni di euro per il 2004, giusto il minimo per iniziare i lavori, e poi di 100 milioni alll’anno dal 2005 al 2014 (comma 10). Bei soldi, quando già la ricerca italiana navigava in acque bassissime e dannatamente torbide.
Il consiglio d’amministrazione comprende nomi nobili della finanza italiana, ottimi scienziati, collezionisti di poltrone che siedono nei consigli di mezzo paese, un ex rettore come Rodolfo Zich. L’IIT è presieduto da Vittorio Grilli, che incidentalmente è anche direttore generale del Tesoro. Il direttore scientifico è Roberto Cingolani, di cui ho già detto. Il direttore generale è Simone Ungaro.
Dalle informazioni reperibili in rete si sa che l’IIT è diviso in quattro unità: il Dipartimento di Robotica, Scienze Cognitive e del Cervello, cui afferiscono 36 ricercatori; il Dipartimento di Neuroscienze e Neurotecnologie, con 23 ricercatori; il Dipartimento di Ricerca e Sviluppo Farmaci, che ne ha 11; e infine, pure con 11 ricercatori, la Facility di Nanobiotecnologie. Ai ricercatori delle quattro strutture si affiancano 68 dottorandi. Molti sono stranieri – una mosca bianca, per l’Italia, che non riesce ad attirare ricercatori dall’estero nemmeno con la tagliola… – e tutti brillanti e con eccellenti curricula.
Essendo arrivati alla fine del 2008, secondo i miei calcoli a oggi sono stati investiti dallo Stato (da voi, se c’è qualcuno che non ha ancora capito chi è lo Stato…) 450 milioni di euro. E l’Istituto italiano di tecnologia ha restituito nove brevetti, consultabili in rete, di cui francamente non saprei valutare la portata, oltre a 114 pubblicazioni: comprendono pubblicazioni su riviste con ottimo impact factor e con impact factor meno ottimo, ma anche un discreto numero di comunicazioni a congressi, una cosa che gonfia i curricula ma in genere non prefigura rivoluzioni scientifiche. Da sottolineare anche, per correttezza, che del 2008 sono citati solo quattro lavori. Forse non c’erano i fondi per mettere on line i più recenti…
Insomma: la struttura dell’IIT è davvero d’eccellenza, e non c’è alcuna ragione di dubitare della qualità di chi ci lavora. E allora perché parlare dell’IIT? Lasciamolo lavorare…
Però (in questo paese i però piovono come meteoriti) qualcuno (io, anche se conto meno del due di picche) si chiede perché l’Istituto italiano di tecnologia debba sfuggire completamente alle regole di tutti gli altri enti di ricerca. E perché lì e soltanto lì si vanno a investire montagne di fondi quando l’Università, il CNR, l’ENEA e tutti gli altri enti di ricerca sono al soffocamento. Perché l’IIT non deve sottostare alle regole di trasparenza e di valutazione che si brandiscono come mannaie all’indirizzo di tutti gli altri?
Mentre nella famigerata Legge 133 congelava il turnover nelle università (poi ridimensionato dal Decreto 180, ma non del tutto) con una mano, con l’altra (art. 17) il mite Tremonti regalava il denaro della Fondazione IRI all’IIT: “A decorrere dal 1° luglio 2008, le dotazioni patrimoniali e ogni altro rapporto giuridico della Fondazione IRI in essere a tale data, ad eccezione di quanto previsto al comma 3, sono devolute alla Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia”. E perché non alla Caritas, o al Comune di Catania (ops…)? E quante sono queste dotazioni? Peanuts, direte voi. Balle, direi io. Quante siano non si sa, ma dallo Statuto della Fondazione IRI si evince che il patrimonio di partenza era di 130 milioni di euro, che potrebbero anche essersi ingrassati, grazie a erogazioni e donazioni, contributi dello Stato e degli Enti Locali e via dicendo.
Ora, in quello che è diventato il DDL 1230, all’articolo 4 comma 345-decies, il Ministro dell’Economia sembra deciso a un nuovo colpo di mano in nome della scienza: “Con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze è stabilita la quota del fondo, di cui al comma 343, destinata alla tutela dei soggetti di cui al medesimo comma 343 nonchè al comma 344, e sono altresì stabilite la quota del predetto fondo destinata al finanziamento della ricerca scientifica…”. Parla, il Tremonti, dei conti dormienti, ovvero i conti correnti che gli italiani non toccano per più di dieci anni. Quei conti, dopo dieci anni, vengono prelevati dal Tesoro. Si parla di uno o due miliardi di euro, non di spiccioli. E un giorno di questi il Tremonti ci dirà quale quota “del predetto fondo” sarà destinata al finanziamento della ricerca scientifica. La ricerca scientifica di chi? Volete scommettere?
Così mentre la signora Gelmini, con generosità commovente, decide di premiare i “virtuosi”, e il Tremonti, severo, dichiara che bisogna ritornare all’etica, l’altro Tremonti, il gemello scialacquone, decide d’imperio dove mettere fondi per la ricerca scientifica senza nemmeno consultare il ministro competente.
Giusto per un termine di paragone con l’abbondanza dei fondi al resto della ricerca, il 3 dicembre l’avvocato Gelmini ha firmato il bando per i Prin, i Progetti di Ricerca di rilevante Interesse Nazionale, che saranno finanziati nel limite massimo complessivo di 95.034.060 euro. Peanuts. Questa volta sì.
E qual è la morale della storia… Bah, i casi sono due: o l’Istituto Italiano Tremonti passerà alla storia per aver salvato il destino del paese trasformandolo da un livello di sottosviluppo tecnologico a improbabile guida dell’innovazione mondiale, e un bronzo del ministro fiero e benefattore campeggerà davanti all’ingresso in sella a un solido destriero; oppure, assai più prosaicamente, Tremonti ha trovato il modo di fondare un istituto che fa ricerca al servizio dei privati (e questo andrebbe anche bene, se solo fosse vero…), ma in cui i privati non devono mettere una liretta, salvo presidiare il consiglio d’amministrazione. Lo Stato paga (e siete sempre voi, me compreso…), l’istituto brevetta e qualcun altro poi forse fatturerà, incassando i dividendi.
Adesso qualcuno penserà che sono contrario all’ingresso dei privati nei centri di ricerca. No, avete capito male. Ce ne fossero di privati che vogliono la ricerca! In Israele la ricerca privata ammonta al 4 per cento del PIL, da noi allo 0,4. È per questo che la nostra industria ha una competitività ai limiti del patetico. E posso anche sopportare – a fatica – che per sostenere il sistema-paese (espressione che più brutta non si può) lo Stato si faccia carico di una quota di ricerca per favorire l’innovazione industriale. Anche se altrove funziona diversamente: l’anno scorso, giusto per citare il MIT, la BP ha contribuito a fondare la MIT Energy Initiative, mettendoci 5 milioni di dollari all’anno per cinque anni.
Ma quello che proprio mi pare intollerabile è che Tremonti decida chi, come e quanto senza passare dal via. Il mondo dell’Università e della ricerca si interroga finalmente su come essere meno baronale, più efficiente, più legato al mondo produttivo e lui, il filantropo, fa quello che gli pare.
Fonte: Cattaneo-lescienze